Introduzione. Il dilemma ‘cosmopolitismo-nazionalismo'
Lo scoppio della Prima fuerra mondiale rappresent per molte obbedienze liberomuratorie europee l’epilogo di un processo di trasformazione iniziato con il risveglio delle nazionalità. Durante l’Ottocento in quasi tutti i paesi europei i massoni furono costretti a confrontarsi la dicotomica questione ‘cosmopolitismo-nazionalismo’.
Il Grande Oriente d’Italia, la più numerosa comunione liberomuratoria italiana, fu tra le artefici dell’interventismo ma nel 1917 le polemiche sviluppatesi, come vedremo, dopo il convegno delle massonerie alleate e neutrali di Parigi e le accuse al ‘fratello’ Luigi Capello per il cedimento del fronte il 24 ottobre rischiavano di vanificare il lavoro compiuto nei tre anni precedenti. Gli attacchi che preoccupavano la dirigenza giustinianea1 non erano quelli che arrivavano dal mondo cattolico e socialista ma bensì dai ‘compagni di strada’, interventisti mussoliniani e nazionalisti, forze politiche che prima del conflitto erano visceralmente ostili alla liberamuratoria ma che il clima d’union sacrée aveva fatto temporaneamente e forzatamente alleare2.
Per uscire da questo cul-de-sac una delle vie praticabili era quella di spingersi su posizioni di aperto nazionalismo e per quanto riguarda la politica estera appoggiando rivendicazioni imperialiste, andando così ulteriormente in contrasto con le tradizioni della massoneria italiana, già duramente messe alla prova con la scelta interventista.
Un tale atteggiamento avrebbe inasprito la polemica principalmente con i socialisti ma si sperava che almeno cessasse il ‘fuoco amico’ di certe componenti interventiste. Questa fu una scelta tattica, presa per salvaguardare l’istituzione, un ‘male necessario’ dettato dalla drammaticità del momento che per non metteva in discussione l’anima pacifista e cosmopolita liberomuratoria oppure l’ultimo atto di una trasformazione irreversibile, con conseguenze imprevedibili, di una componente del Grande Oriente d’Italia? Questo dubbio se lo pose anche la base della maggiore comunione liberomuratoria italiana, che seppur coesa nel concorrere nello sforzo di portare a termine l’unificazione nazionale, non fu compattamente allineata con la sua dirigenza nella scelta interventista e annessionista3.
Di tale problema ne era ben conscio il Gran Maestro Ettore Ferrari e tutte le sue dichiarazioni fatte negli anni precedenti erano state prudentemente elaborate cercando di tenere insieme le varie anime della famiglia latomistica4. Lo stato di confusione e apprensione che serpeggiava nelle logge si era palesato per esempio, e come vedremo, con la superficialità e rapidità con cui lo stesso Gran Maestro era stato messo sotto ‘processo’ dopo la divulgazione delle prime notizie inesatte e poi manipolate che l’accusavano di aver ‘svenduto’ le aspirazioni nazionali nel congresso di Parigi. Sbandamento che si avvertì in campo parlamentare dove molti deputati massoni cominciarono a partecipare alle riunioni del Fascio parlamentare di difesa nazionale, rendendo quindi chiaro che una futura metamorfosi ‘massonico-nazionalista’ avrebbe avuto anche la sua rappresentanza in Parlamento.
Colui che in quel momento molti immaginavano potesse portare avanti una strategia unificante, che ricordava all’intera comunione una delle stagioni più esaltanti vissute dall’Ordine e godeva di un riconosciuto prestigio non solo massonico ma anche politico nazionale e internazionale era Ernesto Nathan. Se i fautori di una evoluzione nazionalista vedevano in lui il loro alfiere, l’altra componente, più fedele alle tradizioni liberomuratorie, sperava che le idealità mazziniane, sempre presenti nelle parole dell’ex-sindaco di Roma, potessero essere una garanzia per preservare l’Istituzione da derive autoritarie e imperialiste.
Le speranze o l’illusione di quest’ultimi furono disattese perché, come ha scritto Marco Cuzzi, il nuovo Gran Maestro trasform la massoneria in un’organizzazione militante e quasi militare o per lo meno fui ci che l’anziano Gran Maestro si prefiggeva di compiere nel suo secondo mandato. Il 1917 era stato l’anno delle grandi sconfitte. L’immagine di un’Obbedienza divisa, sfilacciata e quel che era più temibile, inaffidabile e poco patriottica, spinse il successore di Ferrari a rimarcare una tenace lealtà istituzionale, ma anche a cavalcare la tigre di un nazionalismo dai contorni sempre più lontani dal patriottismo risorgimentale5.
Se tutte le iniziative messe in atto durante la granmaestranza Nathan6 per sostenere il cosiddetto ‘fronte interno’ - anche quelle in antitesi alla tradizione democratica del Grande Oriente d’Italia -potevano essere giustificate per l’eccezionalità della situazione come un dovuto, seppur amaro, sacrificio per il bene superiore della Patria, gli atteggiamenti sulle questioni internazionali ingenerarono seri dubbi sull’ipotesi di una scelta ‘necessaria’, facendo invece ipotizzare a una convinta trasformazione politica per poter giocare un ruolo importante in un futuro dove l’Italia, finalmente vera potenza, sarebbe entrata “al Congresso della pace, cinta di forza e di gloria: vi siederà come una grande nazione, domanderà, legittimamente il suo posto tra le grandi nazioni: l’Italia insomma esisterà”7.
In quel momento storico quali erano in parametri per valutare la grandezza di una nazione? La potenza economica, quella militare? Sì, ma non solo, perché entrambi erano strettamente collegati a una politica espansionistica e imperialistica che puntava su alcuni territori che con il ridimensionamento dell’impero austro-ungarico e ottomano sarebbero stati ceduti alle potenze vincitrici. A quel punto la ‘questione adriatica’ ma più in particolare l’annessione della Dalmazia8divennero la cartina al tornasole per comprendere l’evoluzione nazionalista della giunta guidata da Nathan.
Il dibattito sulla ‘questione dalmata’ nel mondo liberomuratorio
Già prima dello scoppio della Prima guerra mondiale, la stampa massonica si era occupata della Dalmazia. A partire dalla primavera del 1914 L’Idea democratica _giornale creato e diretto da Gino Bandini e cassa di risonanza del Grande Oriente d’Italia rispetto al mondo profan 9_ si era occupata della ‘questione dalmata’ con articoli favorevoli all’annessione all’Italia10, ma visto che dal mondo delle logge erano state sollevate delle voci contrarie il direttore tent di chiarire la posizione della redazione, due mesi dopo l’intervento dell’Italia nel conflitto, con un articolo dall’eloquente titolo, Nessuna rinuncia.
Il principale esperto a livello massonico della questione era Arturo Galanti, professore di storia e geografia, profondo conoscitore della regione nonché consigliere e segretario, a cavallo dei due secoli, della “Dante Alighieri”, e insieme a Nathan referente della componente massonica.
Secondo Galanti la Dalmazia, era debitrice della cultura italiana e l’intera regione era dominata una élite composta da 60.000 italiani e 30.000 slavi che parlavano l’italiano. Il resto della popolazione (480.000 abitanti appartenenti alle «varie schiatte» slave «croati, serbi, morlacchi, uscocchi»), erano «in massima parte contadini e montanari, singolarmente rozzi e ignoranti, per quali l’Austria mai nulla fece». Partendo da questi presupposti era gioco forza poi affermare che l’Italia aveva «l’obbligo morale», oltre a «interessi economici e politici» per annettere la Dalmazia incontrando l’appoggio delle locali popolazioni serbo-croate. In tal modo veniva anche esplicitato che la Serbia poteva ottenere uno sbocco al mare11.
La domanda che i vertici giustinianei si erano posti era: come sarebbe diventata la cartina dell’Europa dopo il ridimensionamento, in caso di sconfitta, dell’Impero austroungarico? La risposta del giornale di Bandini non lasciava molto spazio a supposizioni. Il concetto di autodeterminazione dei popoli tanto caro e difeso dalla massoneria nel periodo liberale aveva lasciato il passo all’annessionismo senza badare per la Dalmazia “a questioni di gruppi etnici, che di fronte alla sicurezza della patria diventano del tutto secondarie”12, entrando in polemica, prima ancora dell’intervento italiano, con la posizione di altri esponenti dell’interventismo democratico come Gaetano Salvemini13 e del suo allievo Pietro Silva14, Benito Mussolini15, anche se in seguito, come vedremo, cambierà opinione16 e soprattutto Leonida Bissolati che nel novembre 1914 scrisse “Ma per condurre efficacemente la sua nuova politica balcanica occorre altresì che l’Italia appaia agli occhi dei popoli balcanici rivendicatrice sincera e disinteressata del principio di nazionalità. Ora, questo non pu essere, sicché essa accampa la pretesa di occupare in ipotesi la costa dalmata continentale popolata in enorme maggioranza di slavi”17. Sulla questione della Dalmazia la massoneria si allontan dall’interventismo democratico per avvicinarsi a quello nazionalista18.
Pur partendo dal presupposto che l’azione politica di un deputato massone non pu essere automaticamente ricondotta a indicazioni specifiche impartite dall’Istituzione a cui apparteneva o anche solo in parte concordate con la sua dirigenza, non si pu per non sottolineare che questo articolo apparve il giorno dopo la nomina di Salvatore Barzilai a ministro senza portafoglio con deleghe sulle future terre orientali acquisite in caso di vittoria dell’Intesa.
Il neo ministro repubblicano era un personaggio di spicco del Grande Oriente d’Italia. Iniziato nel 1886 nella loggia romana “L’Universo”19, dieci anni dopo sedeva nel Consiglio dell’Ordine e da quel momento fece parte attivamente e in modo continuativo della leadership giustinianea appoggiando, a partire dal 1904, la politica del Gran Maestro Ettore Ferrari. Naturalmente la posizione di Barzilai, espressa in un promemoria inviato a Salandra con chiari passaggi espansionistici20, non necessariamente era ascrivibile tout court alle posizioni del Gran Maestro e della sua giunta, ma quanto espresso negli anni precedenti da Ferrari (e in particolare il suo specifico interesse per le sorti dell’Albania21) erano simili a quanto dichiarato dal neo-ministro. La scelta di Barzilai a ricoprire questo incarico obbediva non solo a logiche di allargamento della compagine governativa a tutte le forze interventiste ma anche per le specifiche competenze che, come convinto e attivo irredentista, aveva acquisito. Determinante fu il suo incarico di presidente della Commissione centrale di patronato pei fuoriusciti adriatici e trentini, che lo poneva in contatto con numerosi esuli, o personaggi impegnati nell’ambiente irredentista, tra cui i ‘fratelli’ Ferruccio Ferruzzi, Giorgio Pitacco, Guido Vianini e Giacomo Venezian22 dai quali continuamente riceveva informazioni di prima mano.
Tra questi il più attivo era l’avvocato Alessandro Dudan23, suo ‘fratello di loggia’, sostenitore di una più ampia annessione della costa adriatica orientale fino al Montenegro (e a quel punto fino alla Grecia dato che l’Albania secondo il pensiero di Barzilai sarebbe diventato un territorio controllato dall’Italia24), affermando in un promemoria a Barzilai nel gennaio 1916,
Il predominio dell'Adriatico si pu avere unicamente possedendo tutta la Dalmazia o (nella peggiore delle ipotesi di dover abbandonare ad altri la Dalmazia a mezzodì della Narenta) possedendo, oltre Sebenico, anche il meraviglioso porto di Spalato, con la baia delle Castella e con l'intricato dedalo delle isole antistanti [ ... ]. Se Spalato dovesse divenire l'emporio commerciale di una Jugoslavia qualunque, Trieste e Fiume italiane perderebbero in breve gran parte del valore mercantile che hanno per le loro retroterre25.
L’importanza di una nota inviata a Sonnino ma soprattutto il promemoria consisteva nel fatto che l’intera analisi andava ben oltre alla retorica dell’italianità di questi territori ma introduceva interessanti elementi d’analisi economica funzionali a un progetto di tipo imperialistico, sottolineando, per esempio, l’importanza del porto di Spalato e delle sue industrie, e il controllo della proprietà fondiaria esercitato dalla borghesia d’origine italiana26.
Al contempo la campagna mediatica avviata dal Grande Oriente d’Italia, attraverso la sue pubblicazioni periodiche27 e la stampa ‘fiancheggiatrice’, si rafforz con una serie di pubblicazioni scritte da massoni che a vario titolo e negli anni affrontarono la questione. Ci riferiamo alle pubblicazione di Dudan28 e del suo ‘confratello’ della loggia “L’Universo” Arturo Galanti, che il 30 ottobre 1914 tenne a Roma una conferenza dal titolo, I diritti storici ed etnici dell'Italia sulle terre irredente29 e nel marzo 1915 fu tra i fondatori dell’Associazione Pro Dalmazia italiana30 insieme a Giovanni Colonna di Cesar 31, che venne eletto presidente, e all’avvocato socialista interventista Francesco Arcà, entrambi massoni. Galanti assunse la vicepresidenza propugnando “l'unione della Dalmazia perché essa è assolutamente indispensabile all'integrazione nazionale, geografica, economica e strategica dell'Italia” 32. Sempre nel 1915 lo storico dell’antichità Ettore Pais, socio nazionale dell'Accademia dei Lincei dal 1910 e poi senatore del Regno dal 1922, scrisse La romanità della Dalmazia, 33 ; il professore fiorentino Amedeo Orefici pubblic La Dalmazia34 e partecip alla stesura di un lavoro collettaneo La Dalmazia sua italianità, suo valore per la libertà d'Italia nell'Adriatico, insieme a Dudan, libro che venne pubblicato dal ‘fratello’ Formiggini35; l’insegnante Salvatore Romano affront l’importante questione dell’istruzione e dell’insegnamento della lingua italiana pubblicando, Istituti scolastici ed educativi mantenuti dalla Lega nazionale nel Trentino, nella Venezia Giulia e nella Dalmazia36 e Giuseppe Ortolani scrisse Dalmazia italiana37 . L’anno successivo il presidente della Camera di commercio e industria di Bari, Antonio Di Tullio, present e pubblic la relazione, Per l'italianità dell'Adriatico e della Dalmazia38 . Nel 1918 l’avvocato messinese Rodolfo Serrao pubblic il discorso tenuto il 23 marzo a Palermo39; il professore Gian Domenico Belletti, noto irredentista d’origini piemontesi ma trapiantato a Bologna, scrisse, L' italianità della Dalmazia40; l’ex-sacerdote Elia Babbini pubblic Brevi cenni descrittivi sulla Dalmazia41 e l’insegnante Antonio Di Lullo diede alle stampe due discorsi tenuti nel 1918 e nel 191942. Infine nel 1919 il giurista, più volte ministro nonché esponente di spicco del Grande Oriente d’Italia, Luigi Rava pubblic il discorso, Pro Fiume e Dalmazia43 che rappresent una sorta di epilogo iniziato con il discorso tenuto, il 28 ottobre 1914, dal Gran Maestro Gustavo Canti alle logge torinesi in assemblea plenaria e segreta, in cui esplicitamente parl di “Barbarie tedesca contro la secolare civiltà delle nazioni occidentali”, a cui era necessario opporsi con l’intervento dell’Italia a fianco dell’Intesa. Ma le corde più profonde dei partecipanti vennero toccate quando auspic la guerra all’odiata Austria e l’impegno per il ritorno delle terre irredenti in seno alla Patria aggiungendo per , per la prima volta, il concetto del «giusto ed incontrastato dominio sul mare Adriatico». Questo intervento segn l’inizio di quell’appoggio incondizionato che il Grande Oriente d’Italia diede al disegno espansionistico con un crescendo di enfasi nazionalistica e riferimenti alla superiorità etnica e alla supremazia italica sull’Adriatico e parte delle terre slave, adesione che segnerà il punto massimo di apertura della forbice cosmopolitismo-nazionalismo44.
L’intervento di Canti venne sostenuto da L’Idea democratica e nei mesi successivi dalla Rivista massonica che assunsero una posizione espansionistica che ampliava il concetto fino a quel momento sostenuto dal Grande Oriente d’Italia45.
Secondo Marco Cuzzi
Traspariva quindi quella «necessità» di affermare la potenza italiana nel Mediterraneo (attraverso un Adriatico trasformato nel sogno di un «lago italiano», controllato da entrambe le sponde) già apparsa nelle Logge e nei vertici del GOI nel corso della guerra di Libia. Un imperialismo strisciante, insidioso e inarrestabile che avrebbe ridimensionato, o modificato, il principio di «guerra giusta» alla base delle scelte massoniche46.
L’intervento più significativo per capire il pensiero della dirigenza giustinianea in questa direzione apparve nel novembre 1916 in un lungo articolo pubblicato su L’Idea democratica dal titolo, La Dalmazia, Fiume e le altre terre irredente dell’Adriatico - affidato a Dudan (che si firm con lo pseudonimo Italicus Senator47), a questo punto non solo più fidato informatore ed esperto di questioni dalmate di Barzilai ma anche di Ferrari.
Questo saggio venne preceduto da una serie di articoli48che riprendevano la polemica accesasi prima dell’intervento italiano dove l’intera Dalmazia doveva diventare italiana per ragioni di sicurezza nazionale ma al contempo avrebbe goduto della ‘civilizzazione italica’. Questi interventi erano in sintonia con la circolare del Gran Maestro del 18 novembre che ribadiva il controllo italiano sulla Dalmazia49.
Nello scritto di Dudan, con un intento quasi ‘enciclopedico’ - fatto di circonstanziate e precise notizie storiche, geografiche e demografiche - venne fatto il punto non solo sull’italianità del “Trentino, Trieste e il Friuli Orientale e l’Istria, per le quali nessuno dubita” ma anche su “Fiume e la Dalmazia” 50 terre adriatiche considerate appartenenti “al sistema oroidrografico dell’Italia”51. A parte l’esattezza della ricostruzione delle vicende di quella zona adriatica tese a dimostrare ‘l’italianità’ _ ben presente secondo l’autore nonostante “l’inondazione slava provocata dal turco”52_ l’annessione veniva giustificata non solo per gli aspetti etnici, culturali e religiosi (citando gli “slavi di Dalmazia”, quindi i croati, affermava che “la quasi totalità è cattolica e antiserba”53 e che la lingua parlata dal mondo contadino, era secondo l’articolista “con qualche variante, secondo i luoghi, è un serbo-croato pieno di italianismi di vocabolario e di sintassi”54) ma anche per motivi socio-economici (presenza di una moderna e attiva borghesia, d’origine italiana che controllava l’industria del cemento, dei liquori, la produzione di energia elettrica e le compagnie di navigazione55) concludendo con l’affermazione che una nazione jugoslava non esisteva e se mai fosse stata creata “la Dalmazia non [rientrava] in alcun modo in questa concezione artificiosa della Jugoslavia”56.
Vedremo che dopo un anno esatto Nathan riprenderà molte dell’informazioni contenute in questo articolo per ritornare sulla questione. In tutti gli interventi pubblicati su L’Idea democratica su questo argomento traspare chiaramente la direttiva di usare argomentazioni e termini tali da minimizzare il più possibile le accuse di adesione da parte della massoneria a politiche di matrice imperialista, punto fermo dello sforzo di Ferrari di cercare di evitare conflitti e scissioni. Per dare maggiore diffusione allo scritto di Dudan la giunta del Grande Oriente d’Italia fece ripubblicare l’articolo sotto forma di opuscolo che ebbe più edizioni57, che legittim ulteriormente la figura di Dudan come uno dei massimi esperti della questione dalmata tanto che nella primavera del 1916 e in quella dell’anno successivo, su incarico del governo si rec , insieme ad Attilio Tamaro, a Parigi per sostenere le posizioni annessioniste negli ambienti politici e giornalistici francesi58. Sempre a Parigi, nel luglio 1916, entrambi diedero vita all'Associazione Italia irredenta, presieduta da Antonio Rosa, docente alla Sorbona, Enrico Liebman vicepresidente e Dudan che ricopriva la funzione di segretario59.
Nell’introduzione redazionale, riprendendo a un articolo del medico e politico svizzero Victor Kuhne, apparso sulla rivista Le Genevois, che accusava i sostenitori dei diritti italiani sulla Dalmazia di spirito imperialista, veniva sottolineato che noi non siamo imperialisti e contro l’imperialismo volemmo che l’Italia scendesse in campo; del principio di nazionalità fummo e siamo fervidi sostenitori; non auspichiamo per il nostro Paese alcuna smodata ed eccessiva ambizione di dominio.
Ma per le terre dell’Adriatico -anche per quelle a sud dell’Istria, le sole cioè sulle quali è aperta la discussione- non si tratta di velleità di dominio e di fumi di imperialismo; si tratta solo di rivendicare terre che furono già nostre e dove la natura, l’arte e la storia gridano alto il nome d’Italia; il solo nome d’Italia60.
Nell’autunno del 1916 la campagna mediatica pro-Dalmazia, fino a quel momento portata avanti da singoli massoni e da un organo semi-ufficiale ebbe una consacrazione istituzionale attraverso una circolare di Ferrari in cui non si nascondeva che all’interno della Comunione “tra le aspirazioni nazionali la sola sulla quale nell’animo di taluni sorse qualche dubbio è quella che concerne le terre della sponda orientale dell’Adriatico a sud del Quarnero”.
Naturalmente si tentava di tranquillizzare non solo i confratelli ma il mondo profano che all’interno della comunione nonostante questi dubbi i massoni “pensano, sentono e agiscono italianamente” e che le aspirazioni annessionistiche non erano in contrasto né con la tradizione liberomuratoria né con quella mazziniana in quanto non si trattava di sentimenti di conquista imperialista ma di legittime rivendicazioni che lo studio pubblicato da L’Idea democratica argomentava in modo inoppugnabile61. Non dello stesso parere era stato in passato il più famoso e autorevole degli irredentisti massoni, Felice Venezian62 che già nel 1898 riteneva rischioso estendere le rivendicazioni irredentiste oltre le rive del Quarnaro63. Lo stato italiano aveva il dovere di vigilare e intervenire per difendere la minoranza italiana ma non doveva portare avanti una politica annessionistica64.
La presa di posizione del Grande Oriente d’Italia divenne un vero e proprio atto politico attraverso la rilevante partecipazione di esponenti massonici al congresso straordinario dell’Associazione nazionale Trento e Trieste che si tenne a Roma dal 25 al 27 marzo 1917 a cui parteciparono tra gli altri Nathan, Barzilai, e Ubaldo Comandini65, succeduto a quest’ultimo nella carica di ministro per le terre liberate nel governo Boselli66. Il primo oratore del Congresso, l’ex-sindaco di Ancona, deputato liberale nonché massone Arturo Vecchini67, con toni ‘dannunziani’ afferm come sull’imperial castello di Gorizia espugnata, sulle rosse torri di Trento, sul golfo lunato di Trieste, sull'Istria tutta sonante di nostra lingua, su Fiume, nostra per la natura e la storia; su la Dalmazia, in cui rugge ancora il leone e libra l'aquila il volo; lungo tutte le Alpi, dallo Spluga alle Dinariche; lungo tutto l'Adriatico, dall'Isonzo a Vallona; deve sien terre nostre per legge di natura, per atto di coscienza, per ragioni di civiltà, non usurpabili da forza cieca di numero che non fa nazione; non oppugnabili da interessi e sofismi che non fan verità né giustizia, deve stare e starà il tricolore e la giusta potestà dell'Italia68 mentre l’avvocato massone Rodolfo Serrao69, in merito alla questione del ‘fronte interno’ rimproverava all’interventismo di non aver saputo “spazzare via tutta quella putredine che inquinava la vita politica italiana” prefigurando scenari di guerra civile per “difendere questa sacra guerra” e all’occorrenza “scendere sulla piazza con le armi per difendere l’avvenire della Patria, che non deve essere compromesso”70. Pochi mesi prima durante un congresso regionale del Rito scozzese antico ed accettato tenutosi a Palermo, una dei dirigenti più in vista a livello nazionale Emanuele La Manna disse “Noi non saremo sicuri […] fino a quando le aquile di Roma e il leone di S. Marco non riconquisteranno le terre di cui archi, fori, colonne, teatri, lingua e costumi attestano il loro dominio e signoria» riprendendo due leitmotive del pensiero liberomuratorio: la difesa dei confini orientali e il ruolo ‘civilizzatore” dell’Italia71.
Un’altra associazione che ottenne un pieno appoggio da parte del Grande Oriente d’Italia fu la Commissione centrale di patronato dei fuoriusciti adriatici e trentini, fondata nell’aprile 1915 su ispirazione della Dante Alighieri, che si pose subito su posizioni intransigenti rispetto alla questione dalmata affermando che “il confine d’Italia -per ragioni geografiche, storiche e politiche- è al Brennero, alle Giulie, alle Dinariche”72. Tra i fondatori figuravano un nucleo di massoni triestini73 tra cui Enrico Liebman e Saul Piazza, residenti a Milano e ‘confratelli’ nella loggia “La Ragione”, che vennero eletti responsabili della Sezione adriatica, Quinto Segrè, cooptato nel Comitato Centrale, mentre i comitati di Udine, Padova e Bologna erano diretti rispettivamente da Carlo Banelli, Enrico Tedeschi74 e dal figlio di Felice Venezian, Fabio75.
L’anno successivo, nacque il Comitato centrale di propaganda per l’Adriatico italiano per iniziativa del massone e avvocato fiumano Icilio Baccich Gilardello76, e degli onnipresenti Di Cesar, Pitacco e Dudan. La funzione del Comitato era di fungere da collegamento tra le varie associazioni ‘adriatiche’ operanti in Italia e i gruppi di irredenti che agivano a Parigi, Londra e in Svizzera. Per sostenere l’opera di questi gruppi il Comitato inizi a pubblicare un Bollettino e opuscoli propagandistici in francese e inglese. Il primo fu La question de l’Adriatique di Dudan firmato nuovamente con lo pseudonimo Italicus Senator77.
Il Congresso massonico di Parigi del 1917 e la questione dei plebisciti.
A partire dall’inizio della guerra apparve evidente il costante tentativo da parte della massoneria, non solo quella giustinianea, di legittimarsi come forza patriottica conscia che questo comportava un radicale ridimensionamento delle tradizioni cosmopolite e uno spostamento su posizioni nazionalistiche. Era una svolta rischiosa e imprevedibile che rendeva l’Istituzione attaccabile da più parti. Una prova che questa svolta poteva scatenare delle tempeste si ebbe, come già accennato, in occasione del congresso delle massonerie dei Paesi alleati e neutrali, tenutosi a Parigi alla fine di giugno del 1917. Inizialmente si pensava che in questo congresso si dovesse solo discutere in che modo la massoneria internazionale poteva favorire la nascita di una Società delle Nazioni, ma già nel documento programmatico che accompagnava l’ordine del giorno inviato a tutte le Obbedienze partecipanti faceva presagire che il dibattito sarebbe inevitabilmente finito per allargarsi anche ai futuri assetti territoriali postbellici, in quanto era scritto che l’immane strage che si consumava in Europa apporte au peuples le droit de reconstituer sur la base des caractéristiques naturelles, ethniques, morales, historiques, artistiques, les nationalités brisées, ou meme effacées par de longs siècles de despotisme et de militarisme. Assurant à chaque nationalité ainsi recomposée avec homogénéité de principes et de régime politique de liberté les garanties de défense naturelle et de développement pacifique78.
Questo paragrafo fu interpretato pro domo mea dalle delegazioni portatrici delle aspirazioni delle “nationalités brisées” ed era prevedibile che le delegazioni italiana e serba sarebbero potute entrare in rotta di collisione sulla questione dell’Istria e della Dalmazia. Il delegato francese André Lebey propose che per il futuro delle terre contese fossero le popolazioni stesse a decidere attraverso un plebiscito79.
Di fronte a un no netto e deciso degli italiani e a un altrettanto sì entusiastico della delegazione serba -guidata da Dragan Jovanović, Venerabile di una loggia serba ricostituitasi nella capitale francese, che propose fossero previsti i plebisciti per definire il futuro della Dalmazia, del Carnaro, dell’Istria e di Gorizia, ritenute terre a predominanza sloveno-croata e quindi parte integrante del futuro Regno serbo-croato-sloveno80- si raggiunse una soluzione di compromesso che affermava che la ricostituzione delle nazionalità oppresse doveva tenere conto “de tous les éléments qui composent une conscience nationale”81.
Un resoconto incompleto ma soprattutto inesatto pubblicato da un giornale francese82 e ripreso dalla stampa italiana fece invece intendere che la delegazione italiana, formata da Ferrari, Nathan, il Grande Oratore Giuseppe Meoni e Carlo Berlenda, avesse accettato il principio del plebiscito e scarsamente difeso le pretese italiane sulle terre adriatiche. La dura polemica che ne seguì -in cui il Gran Maestro afferm che i rappresentanti italiani avevano rigorosamente affermato “il diritto incontrovertibile dell’Italia su tutte le terre che geograficamente, etnicamente e storicamente le appartengono e rappresentano i suoi confini naturali e la sua necessaria difesa sulle Alpi e nell’Adriatico”83- lo costrinse, a fine luglio, alle dimissioni84 che non placarono le polemiche sia nel Grande Oriente d’Italia sia nel mondo ‘profano’.
Particolarmente duri per Ferrari furono i commenti di Salvemini, profondamente antimassone, che con un linguaggio sprezzante, in una lettera a Prezzolini sentenzi “hai ragione che il ‘Popolo d'Italia’ è infetto d'imperialismo. Chi lo mantiene è la massoneria la massoneria è quella che è: una collezione di cretini, che si è buttata a volere la Dalmazia senza sapere quel che facesse, e ha fatto a Parigi la figura che tutti sanno”85. Salvemini, da tempo aveva denunciato l'atteggiamento ‘nazionalista’ della massoneria italiana attribuendogli posizioni ‘dalmatomani’ ma durante la polemica non si associ al coro che gridava al tradimento anzi, come si è visto, ipotizzava un ruolo attivo nel cambiamento dell'atteggiamento favorevole alla conquista della Dalmazia da parte di Mussolini86
L’accettazione senza riserve delle dimissioni da parte del Consiglio dell’Ordine accompagnate da un commento teso a ribadire l’atteggiamento interventista e patriottico praticato dal Grande Oriente d’Italia e la decisione di non ratificare gli accordi di Parigi furono vissute da Ferrari come una sorta di condanna per ‘tradimento’ con l’obiettivo di addossare solo a lui e non all’intera delegazione la colpa di quanto era successo e preservare l’Istituzione da ogni accusa87.
Il primo passo della giunta guidata dal Gran Maestro ad interim Canti, per evitare qualsiasi fraintendimento, fu quello di votare un ordine del giorno che ribadiva l’impegno patriottico dell’Istituzione con l’obiettivo finale di ricongiungere all’Italia “tutte le terre che le assegnano le ragioni etniche e storiche, la necessità della difesa militare e l’incontestabile suo diritto di predominio nell’Adriatico”88. La successiva pubblicazione degli atti ufficiali, avvenuta un mese dopo, rese piena giustizia a Ferrari e la circolare di Canti, contenente implicite scuse, non servì a rasserenare l’animo dell’ex-Gran Maestro, che sdegnosamente non ripresent la sua candidatura.
Il dibattito sviluppatosi a Parigi e in particolare la proposta serba appoggiata dai francesi -al di là del terremoto che provoc al vertice del Grande Oriente d’Italia e la ripresa di una campagna antimassonica che ricordava quella condotta da L’Idea nazionale prima della guerra- metteva drammaticamente in evidenza l’imbarazzo da parte della dirigenza giustinianea di coniugare un caposaldo della sua storia, la difesa del principio di nazionalità per l’autodeterminazione dei popoli, e l’adesione alle strategie espansionistiche del governo italiano. Invece di prendere atto che il ‘mondo’ era cambiato, che il principio di nazionalità ottocentesco caro a tanti massoni italiani era tramontato ed era necessaria una profonda riflessione, nei discorsi e negli articoli si continu a fare riferimento a Mazzini89, all’universalismo liberomuratorio, alla fratellanza universale. Come ha evidenziato Luciano Monzali.
Se per Mamiani, Cavour e Mazzini all’Italia potevano bastare i confini alpini, comprendenti tutto il Tirolo italiano e l’Istria, per i loro eredi politici, Nathan, Salandra, Sonnino, Giolitti, il disastro navale di Lissa, la conquista asburgica della Bosnia, la fine del dominio ottomano nei Balcani e il peggioramento delle condizioni di vita degli italiani dalmati, erano tutte ragioni che spingevano a rivendicare l’inclusione di parte della Dalmazia fra le terre da conquistare. Una Dalmazia nella quale la presenza culturale, linguistica e nazionale italiana era sicuramente più forte che in Alto Adige e nell’alta valle dell’Isonzo, tradizionalmente ritenute terre la cui annessione era vitale per il futuro dello Stato italiano90.
La vicenda, oltre agli sviluppi interni e le ripercussioni nel fronte interventista, diede forza a quanti ormai nella più grande comunione liberomuratoria italiana erano schierati su posizioni nazionaliste, ammonendo chi come Meoni erano critici che qualsiasi distinguo sulla questione dalmata poteva avere effetti disastrosi sul futuro dell’Istituzione tanto che un’informativa inviata al Ministero degli interni da parte di un funzionario di polizia che ‘controllava’ le attività della dirigenza giustinianea segnalava acutamente, nell’estate del 1917, che era “superfluo dire che d’ora in poi i massoni [saranno] vigili custodi del programma massimo di rivendicazione italiane”91.
Il congresso parigino aveva provocato dei danni enormi, si era individuato un capro espiatorio ma il pericolo di una delegittimazione politica del Grande Oriente d’Italia persisteva. Un ‘fratello’ che riassumeva in sé le caratteristiche per ricompattare l’Ordine e traghettarlo fuori dalla crisi era il Sovrano Gran Commendatore del Rito Scozzese Antico ed Accettato, Achille Ballori, ma il 31ottobre venne assassinato da uno psicopatico che credeva che la massoneria fosse la causa maggiore del difficile momento che il paese stava attraversando.
A quel punto la scelta a reggere il ‘Supremo maglietto’, come si è visto, cadde su Nathan. La sua scelta da una parte rassicur le logge per il prestigio a livello politico che godeva ma dall’altra ampli ulteriormente la forbice della vexata quaestio autodeterminazione dei popoli versus derive imperialiste.
La Gran maestranza Nathan e le derive ‘imperialiste’
L’ex sindaco di Roma chiarì subito la sua posizione sul grave momento che il Paese attraversava dopo Caporetto: piena adesione alle scelte governative, compattamento dello schieramento patriottico e, di conseguenza, ripudio incondizionato del pacifismo e preoccupazione per il diffondersi dell’ “insidioso contagio del bolscevismo”92. Anche sulle questioni di politica estera non ci furono esitazioni: la Dalmazia doveva essere annessa all’Italia senza ricorso a plebisciti. Posizioni queste distanti dal pensiero mazziniano -a cui s’ispirava nel suo agire politico- e manifestate con toni inconsueti per il suo carattere93.
Nathan aveva sempre provato un profondo interesse per la Dalmazia grazie ai rapporti instaurati, nei decenni precedenti, con Venezian ma soprattutto con Roberto Ghiglianovich tramite l ’Associazione Dante Alighieri94. Più in generale aveva sempre considerato positivamente l’espansione italiana nel Mediterraneo come era altrettanto contrario alle imprese coloniali nel Corno d’Africa. In particolare, ancora prima di essere eletto, ritorn su uno dei temi chiave della polemica estiva, la questione dei plebisciti, per ribadire un fermo rifiuto non negoziabile.
Il Gran Maestro in-pectore afferm che la Dalmazia si stende una serie di borgate e di cittadine, di una evoluta civiltà creata, ereditata e mantenuta dalla Repubblica di San Marco, in altri tempi di quelle rive padrona. Dietro a queste popolazioni consce dei loro doveri individuali e collettivi, italiane nell' animo, nel sentimento, nella intelligenza, i monti retrostanti sono abitati da Slavi, tuttora avvolti nei veli di una ignoranza tradizionale, guidati da istinti più barbari e feroci. Sono in maggioranza. Si applichi il toccasana del voto plebiscitario, e la civiltà italiana sarebbe sommersa nei flutti di quella parziale se non intera barbarie!95.
La questione veniva quindi posta come una inderogabile necessità di fare una scelta tra l’affermazione/imposizione della “italica civiltà” oppure la legge dei numeri che avrebbe portato l’instaurazione della “barbarie slava”. Di fatto veniva messo in discussione non solo il principio di uguaglianza ma uno dei cardini del costituzionalismo moderno: il voto come diritto individuale, “un uomo, un voto”, esaltando invece, come giustamente ha sottolineato Beatrice Pisa, “degli elementi qualitativi di civiltà” già emersi nel congresso parigino quando Nathan s’indign “sulla possibilità che il ‘numero bruto’ potesse predominare sulla cultura” facendo chiaramente capire che si potesse arrivare una nuova umanità affratellata e solidale, concetto caro al cosmopolitismo liberomuratorio, attraverso per “precise gerarchie fra i popoli in rapporto al grado di cultura posseduto”96.
I concetti espressi in questo articolo pubblicato sull’organo ufficiale del Grande Oriente d’Italia erano simili se non uguali non solo a quelli che ricorrevano nella pubblicistica nazionalista97 ma anche nelle posizioni ufficiali dell’Associazione nazionalista italiana per cui il principio di nazionalità doveva essere valutato “nella sua funzione storica di tradizione e di civiltà e non nelle possibili brutali sopraffazione del numero, spesso strumento di violenze tiranniche”98. Pertanto chi lo vot come Gran Maestro nel 1917 era perfettamente a conoscenza che le sue posizioni erano ormai quasi assimilabili a quelle dei nazionalisti
E’ impossibile chiarire se i voti raccolti da Ferrari, nonostante non si fosse candidato, fossero un voto di protesta, un grido d’allarme di una parte della comunione che si rendeva conto che si stava snaturando la tradizione del Grande Oriente d’Italia. Ma il prestigio di Nathan era così forte e radicato nella base liberomuratoria che il suo programma ottenne l’adesione dei vertici giustinianei a eccezione di Meoni, il quale fin dall’inizio del 1916 aveva messo in guardia la dirigenza giustinianea da possibili derive nazionaliste affermando che la Torbida ideologia che l’infatuazione di un nazionalismo più rumoroso di parole che capace di opere vorrebbe gabellarci come il più vero e migliore vangelo della rinnovata grandezza della patria […] La democrazia aderisce alla guerra anzitutto perché è guerra italiana, cioè fatta principalmente contro quegli ex alleati con i quali, in un epoca non dimenticata, i nazionalisti sarebbero stati lieti di marciare, ed anche perché è guerra umanitaria: cioè guerra che mira a vendicare le offese che l’imperialismo predatore ha recato alla libertà ed all’indipendenza dei popoli99.
Concetti che Meoni ribadirà nel 1919, pochi mesi di essere eletto Gran Maestro Aggiunto, affermando che la massoneria doveva “combattere le aspirazioni imperialistiche in qualunque nazione o popolo si mostrino”100.
Nell’ultimo anno di guerra, dopo la conquista del potere da parte dei bolscevichi e il trattato di Brest-Litovsk, la Russia usciva definitivamente dallo scenario balcanico e nel fronte annessionistico cominciarono a delinearsi i primi distinguo tra i fautori del dialogo con i serbi e gli intransigenti. Il dibattito coinvolse anche le logge e il Gran Maestro rese pubblico che su questo argomento da “parecchio si è parlato e si va parlando nelle Officine e fuori delle rivendicazioni nostre, dei loro limiti, delle relazioni da stabilire con le razze slave di nazionalità diverse, sulla posta sponda dell’Adriatico” e dovette anche ammettere che “le sfumature da persona a persona, da Loggia a Loggia sono diverse e multiformi”.
La presa d’atto della presenza di opinioni diverse lo consigli di compattare le file liberomuratorie, lanciando un appello all’unità, ricordando che la guerra non era finita e che occorreva combattere gli “avversari interni ed esterni” pur ribadendo che personalmente non accettava “nessuna abdicazione di diritto italiano, nessuna rinunzia a dovute rivendicazioni, nessun abbandono di fratelli asserviti o di confini atti alla difesa nazionale”101. Non un ripensamento quindi, ma solo una pausa tattica per smorzare le polemiche all’interno delle logge, attendendo il momento favorevole per rinnovare la piena adesione alla politica portata avanti da Sonnino sui temi della politica estera esplicitata sulla stampa ‘profana’ già nell’agosto 1917102 e costantemente ribadite ogni volta che venivano evocati, in Italia o all’estero, scenari postguerra.
L’occasione gli venne data in occasione della pubblicazione delle richieste di pace avanzate dall’Austria dove si sollecitavano logge non solo alla fattiva solidarietà verso i “fratelli irridenti” ma di sostenere l’opera del governo considerando la Dalmazia un territorio irrinunciabile103. Se verso la comunione massonica venne scelta una tattica di basso profilo, in campo politico la dirigenza giustinianea era pronta a sostenere tutti i gruppi e le forze politiche ‘annessioniste’, pur tra varie sfumature, come per esempio la formazione d’ispirazione socialista interventista Democrazia sociale irredenta (DSI)104, appoggiata dal giornale Il Grido degli Oppressi, diretto dal massone Enrico Liebman che era favorevole all’annessione di una parte della Dalmazia, in particolare della città di Zara. I collegamenti con la massoneria apparvero subito chiari per via dell’appoggio ottenuto da L’Idea democratica105, la messa a disposizione da parte dell’influente massone triestino Cesare Goldmann dei locali del Circolo per gli interessi industriali commerciali e agricoli di Milano -sede anche della storica riunione ‘sansepolcrista’ del 23 marzo 1919- e la presenza nel comitato promotore di Dudan e nel Comitato centrale di Liebman, Vitale Tedeschi, Amos Mitis e Angelo Scocchi ex direttore dell’organo repubblicano triestino Emancipazione con simpatie socialiste, che ne assunse la direzione106. Altre figure di spicco, erano i giornalisti istriani Clemente Marassi e Giuseppe Lazzarini107, socialista nazionale sempre presente nelle delegazioni del sodalizio inviate all’estero e in Italia, spesso accompagnato, verso la fine della guerra da un altro istriano, Michele Miani iniziato nella veneziana “XX Settembre”, che pass nella milanese “La Ragione”, una delle logge più autorevoli e maggiormente impegnate sulla questione adriatica e con alcuni suoi influenti membri che ricoprivano ruoli dirigenti nell’associazionismo pro-dalmata108.
Accusata dai socialisti jugoslavi di portare avanti una politica imperialista la DSI si difendeva con le stesse motivazione espresse dagli esponenti meno schierati su posizioni ‘nazionaliste’ del Grande Oriente d’Italia. Sempre in ambito socialista interventista va sottolineata la mozione pro-Dalmazia presentata dal noto orientalista e massone Francesco Lorenzo Pullè durante il congresso del Partito socialista riformista, in aperta opposizione al suo leader Bissolati109.
Altrettanto significativa fu la presenza ‘massonica’ nella direzione della sezione adriatica della liberal-nazionalista Associazione Politica tra gli irredenti italiani (Apii)110, (della quale i ‘fratelli’ Giorgio Pitacco111 e Carlo Banelli112 erano rispettivamente presidente e vice-presidente, e Baccich, Dudan, Scocchi, Ruggero Ravasini 113 ed Eugenio Jacchia membri della Direzione) organismo nato nel febbraio 1918 su posizioni ‘massimaliste’, ribadite con una integrale affermazione dinnanzi al mondo civile dei diritti geografici, etnici e storici d’Italia, in armonia coi supremi interessi della difesa nazionale. Tale affermazione comprende imprescindibilmente, tutte le terre dall’Alto Adige all’estrema Dalmazia […] fino all’uscita sul mare dell’Erzegovina, ritenendo che qual’altra nazione in avvenire fosse in possesso della Dalmazia, sarebbe padrona in buona parte dei destini d’Italia114.
La forte presenza liberomuratoria in questa associazione, nata in contrapposizione alla Democrazia sociale irredenta, che considerava invece l’unica città dalmata che poteva essere unita all’Italia era Zara, essendo a maggioranza italiana mentre il resto della Dalmazia sarebbe appartenuta allo Stato iugoslavo115 -è un’ulteriore dimostrazione del protagonismo politico- reso manifesto con la presenza al congresso inaugurale dell’Apii dei deputati massoni Rava, Barzilai, De Cesar , Francesco Arcà, Edoardo Pantano, Alberto La Pegna e Ulderico Mazzolani116 -e dell’appoggio trasversale dato dal Grande Oriente Italiano a tutte le organizzazioni che rivendicavano l’annessione della Dalmazia.
Figura chiave in questo preciso contesto e maggiore sostenitore delle posizioni di Nathan fu il proprietario de Il Piccolo di Trieste, azionista di maggioranza dell’Agenzia Stefani e assiduo frequentatore di Sonnino, Teodoro Mayer117 che della giunta del Grande Oriente d’Italia ricopriva la carica di Gran Tesoriere.
L’annessionismo dalmata, sostenuto dalla grande maggioranza dei vertici e dai fratelli ‘autorevoli’ che il Gran Maestro regolarmente interpellava - tra questi l’avvocato e deputato udinese ma milanese d’adozione Riccardo Luzzato118, futuro ‘sansepolcrista’ - diede vita a nuove alleanze e rotture a volte dolorose, come in questo caso, con Leonida Bissolati.
Uno dei pochi fratelli ‘autorevoli’ contrari all’indirizzo ‘nazionalista’ dominante nella liberamuratoria era la prestigiosa figura di Arcangelo Ghisleri, che da repubblicano intransigente era rimasto fedele al pensiero dell’Apostolo genovese, convinto sostenitore dell’Italia garante dei diritti delle nazionalità oppresse e quindi contrario alle annessioni119. La sua posizione -sostenuta anche dalle competenze professionali, essendo un apprezzato geografo e cartografo- non concedeva spazi a mire espansionistiche, anche se si era in presenza di forti comunità di lingua e cultura italiana ma auspicava “il rispetto delle nazionalità altrui” 120 sostenendo “noi vogliamo il nostro diritto appunto perché riconosciamo il diritto altrui”121 e facendo appello per una politica di pace e amicizia con la futura Jugoslavia. Posizione condivisa dalla maggioranza dei repubblicani, e di conseguenza anche da quelli che frequentavano le logge, convinti che gli italiani che vivevano a sud di Fiume costituivano delle minoranze in territori slavi e che quest’ultima città doveva essere il limite delle aspirazioni nazionali, oltre sarebbe diventata una conquista imperialista122. Ghisleri era pertanto in netta contrapposizione al ‘partito dalmata’, e il miglior sistema difensivo dei confini orientali non era l’annessione della Dalmazia ma bensì una relazione amichevole con nascente nazione jugoslava. L’Italia doveva mantenere rapporti di
amicizia, di collaborazione e di guida ideale di tutti i popoli in lotta contro l’oppressione asburgica luminosamente tracciata da Mazzini, poiché insania imperdonabile davanti alla storia e al futuro d’Italia sarebbe una politica la quale non sapesse liberarsi completamente dei viluppi della diplomazia e delle tradizioni tripliciste per affermare, nell’attimo degli eventi, che mai più ritornerebbe l’occasione di tanta gloria e d’una missione di civiltà e di libertà, che ci conquisterebbe perpetua reverenza e simpatia presso i nuovi popoli redenti123.
Nathan, in un discorso tenuto non a caso in occasione del natale di Roma, pur ribadendo che sulla Dalmazia non aveva cambiato opinione, respinse sdegnosamente le accuse di derive imperialiste affermando Altro che imperialismo! Chiedere il proprio guscio è necessità di esistenza, vita giornaliera, sicurezza di pace senza potenzialità d’offesa per chiunque affronta imparzialmente la grande questione dei popoli e del loro definitivo assetto […] E’ questo il nostro Imperialismo, la pura e semplice Unità Italiana quale la determina la storia, configurazione, lingua e volontà degli irredenti124 ma che occorreva mettere un freno alla discussione sui futuri confini e sostenere unitariamente la nazione nello sforzo bellico.
Ancora prima che la guerra finisse la ‘questione dalmata’, seppur non direttamente, port il Grande Oriente d’Italia sull’orlo di una scissione. Ancora una volta un fatto politico -il totale allineamento di Nathan alle posizioni di Sonnino e la rottura con Bissolati che di lì a poco avrebbe dato le dimissioni da ministro, essendo favorevole a un accordo con la Jugoslavia-, crearono frizioni all’interno dell’Obbedienza e la nascita di due posizioni contrapposte.
Da una parte Nathan, la maggioranza della giunta e i ‘fratelli’ apertamente ‘filosonniniani’ che, conseguentemente deploravano l’atteggiamento di Bissolati. Dall’altra chi, come Meoni, esortava la massoneria ad abbandonare le “aspirazioni imperialistiche” e battersi per la creazione “della Lega delle Nazioni, per la guerra alla guerra, per il disarmo”125. Come in passato le contestazioni più energiche alle scelte della Gran maestranza arrivarono da una parte del mondo liberomuratorio ambrosiano. Una consistente componente della massoneria milanese all’inizio della guerra espresse posizioni antinterventiste ma dopo l’ingresso dell’Italia nel conflitto assunse un atteggiamento patriottico impegnandosi per la vittoria della nazione126. Ma un conto era partecipare allo sforzo bellico ben altro era andare verso lidi nazionalisti, sostenendo annessioni imperialistiche come faceva il sempre più ascoltato, da parte di Nathan, Alessandro Dudan, che nel 1918 aveva assunto posizioni ‘massimaliste’, reclamando l’annessione integrale della Dalmazia “da Arbe a Cattaro”127, posizioni neanche più condivise dai massimi dirigenti nazionalisti come Forges Davanzati, Federzoni, Foscari, che auspicavano la conquista del territorio fino al fiume Narenta e di Fiume.
Più si avvicinava la fine del conflitto, più era chiaro come il principio dell’autodeterminazione dei popoli fosse stato completamente abbandonato dal Gran Maestro. Con questa presa di posizione, la polemica all’interno dell’Obbedienza assunse toni accesi soprattutto perché la politica annessionista poneva in discussione il sostegno alla nascita della Società delle Nazioni da parte della comunione giustinianea, un progetto che era invece accarezzato da molto tempo dalla maggioranza dei massoni italiani.
L’attrito tra Milano e Roma128 divenne velocemente di pubblico dominio quando Il Secolo129 scrisse un lungo articolo e Il Messaggero pubblic una risposta del Gran Maestro, unitamente a una testimonianza, tutt’altro che conciliante, di un alto dignitario del Grande Oriente d’Italia, che scelse per l’anonimato. A parte il refrain della apoliticità della massoneria - quando invece il Grande Oriente d’Italia pur non essendo un partito svolgeva a tutti gli effetti un’azione politica - l’intervista al quotidiano romano port alla luce le forti turbolenze esistente nelle logge aumentata esponenzialmente dopo l’assunzione della granmaestranza dell’ex-sindaco di Roma. Era chiaro che il tentativo di trasformare l’Obbedienza giustinianea in un organismo coeso attorno al suo leader, su posizioni ‘sonniniane’ e per alcuni aspetti persino più a destra di quelle del ministro degli Esteri era fallita e che se, come riferì l’anonimo intervistato, per ‘sonniniano’ significava “essere fautore del Patto di Londra (quello che abbandonava alla sua sorte l’italianissima Fiume) le dir che in massoneria ci sono numerosi ‘antisonniniani’”130.
Le dimissioni, nel dicembre del 1918, da ministro dell'Assistenza Militare e Pensioni di Guerra del social-riformista Leonida Bissolati, che anche se non era un massone131 rappresentava un riferimento politico per i dissidenti milanesi, venne utilizzata da Nathan, per riconfermare la sua linea politica, dichiarando in una circolare che la maggioranza dei vertici giustinianei dissentiva dalla sua scelta e che quindi, di fatto, si ponevano in sintonia con Mussolini e la società “Dante Alighieri”, pur non condividendo la scelta di impedire all’anziano socialista di parlare in un comizio indetto alla Scala l’11 gennaio 1919 dove afferm di essere favorevole per un accordo con la Jugoslavia132.
La polemica a quel punto investì i vertici del Grande Oriente d’Italia e vide contrapporsi da una parte il Gran Oratore Meoni, non solo vicino alle posizioni di Bissolati ma il più critico verso le posizioni nazionaliste del Gran Maestro tanto che nella seduta del 16 gennaio 1919, interamente dedicata alla presa di posizione bissolatiana, afferm la sua ferma opposizione alle tentazioni di tipo imperialistico ribadendo la necessità della nascita di una Lega delle nazioni e un ritorno alle idealità pacifiste. Naturalmente Nathan era contrario e definì il suo Gran Oratore un “idealista” e, ottenendo la maggioranza dei consensi dei vertici dell’Obbedienza, ribadì il totale appoggio ai delegati italiani che alla conferenza di pace di Parigi dovevano avanzare le richieste sulla Dalmazia.
A Parigi -afferm il Gran Maestro- dove debbono stabilirsi le condizioni della pace, ogni azione affaccia le sue pretese; i loro delegati non sono idealisti, si adoperano per ottenere i maggiori vantaggi. Conveniva, in questo stato di fatto, o converrebbe indebolire i nostri negoziatori con rinunzie premature? No: quindi non possiamo non deplorare l’atteggiamento di Bissolati. D’accordo sulla Lega delle Nazioni: ma quali nazioni? Che cosa i polacchi, gli czechi, gli jugoslavi? Ad ogni modo noi abbiamo già riconosciuto in essi il carattere di nazioni ed è questa la parte teorica. Per la parte pratica, abbiamo detto e ripetuto che non si deve rinunziare a nessuna delle giuste rivendicazioni nazionali133.
La lettura del verbale mette in risalto un comun denominatore tra tutti i partecipanti, a parte Meoni: evitare di parlare d’imperialismo perché in quel momento poteva risultare controproducente rispetto alle richieste sulla Dalmazia e per non indispettire Francia, Inghilterra e Stati Uniti d’America.
Dopo aver ricevuto l’appoggio dalla maggioranza della giunta il Gran Maestro rese pubblico il suo parere sulla posizione assunta da Bissolati e stigmatizz la solidarietà dimostrata da parte della massoneria milanese nei confronti del leader social-riformista cogliendo inoltre l’occasione per sottolineare che l’appoggio alla nascita di una Lega delle Nazioni non doveva essere il pretesto per rinunciare alle “sponde orientali dell’Adriatico”. Che la questione creasse imbarazzo lo si intuisce dalle considerazioni che la Rivista massonica pubblic commentando la circolare respingendo ogni accusa di imperialismo e che i territori dalmati erano funzionali per difesa dei confini della patria134. Se qualcuno nella giunta interpret le parole di Nathan come un tentativo di smorzare le polemiche assumendo una posizione più ambigua dovette ricredersi pochi giorni dopo quando venne trasmessa una nuova circolare con toni chiaramente imperialisti che giustificava l’esistenza di una scala gerarchica tra le nazioni in base al loro sviluppo culturale.
Come in qualsiasi paese vi sono classi di coltura diversa, ognuna specializzata in determinato lavoro, e non si chiamano gli zappatori a pronunciare le sentenze in Tribunale; così nei territori confinanti delle nazionalità diverse, vi sono nuclei parlanti lingue diverse e dotati di coltura diversa e la questione là si pone come qua: sarà il lavoratore manuale che detterà la sentenza nei Tribunali delle Nazioni?
Se nell'India il numero dovesse predominare sulla cultura, le poche centinaia di mila Inglesi sarebbero sommersi dai 200 milioni Indiani; se il numero bruto è criterio per la direzione di una regione, non v'è Nazione che abbia diritto di possedere Colonie e malamente si comprende il Governo Americano alle Filippine. Onde è evidente che la maggiore civiltà deve avere ascendente sul maggior numero nelle zone grigie e nei dubbi confini delle nazionalità che popolano la sponda orientale dell'Adriatico e la ragione di reintegrazione unitaria lungo la costa della Dalmazia sino a Spalato, dell'Istria fino a Pola, al Quarnaro e di Fiume intensamente italiana nella storia, nella lingua, nei costumi, non dovrebbe essere revocato in dubbio in paese per indebolire le mani dei nostri plenipotenziarii, come non pu essere revocato in dubbio da essi al Congresso della Pace, qualunque siano le sfacciate domande di chi vorrebbe contrariarle135.
Concetti che fino a quel momento sembravano patrimonio solo dei nazionalisti ed esaltati neanche un mese prima nella rivista Politica, fondata da Francesco Coppola e Alfredo Rocco, dove sulla ‘questione dalmata’ si affermava che “dove non possono distinguersi territorialmente gli elementi etnicamente diversi, è naturale, è giusto ed è necessario che quelli di civiltà inferiore, gli slavi, sottostiano a quelli di civiltà superiore, gli italiani”136.
La circolare non venne inviata ai membri del Grande Oriente d’Italia -anche se, secondo Nathan rispondeva alla pressante richiesta di alcune logge di “esporre pubblicamente i concetti della Massoneria in merito alle rivendicazioni nazionali”137- forse per evitare le possibili dimissioni di Meoni e di quanti pur appoggiando il Gran Maestro non erano disposti a seguirlo in questa deriva.
Nonostante Nathan contasse sull’appoggio della maggioranza della giunta e sia il Gran Maestro aggiunto Marensi sia l’autorevole consigliere dell’Ordine, l’avvocato irredentista Eugenio Jacchia avessero ribadito che la volontà del Grande Oriente d’Italia era di sostenere le rivendicazioni italiane anche sulle sponde occidentali dell’Adriatico138, le prese di posizione assunte all’inizio del 1919 ravvivarono la polemica con Milano. A quel punto molti ‘fratelli’, anche tra coloro che ricoprivano cariche a livello nazionale, iniziarono a domandarsi dove avrebbe portato l’intransigenza di Nathan sulle rivendicazioni territoriali. Più volte venne fatto il riferimento a Lemmi e alla scissione del 1895, e la stessa Rivista massonica si sentì in obbligo di tranquillizzare i ‘fratelli’, soprattutto quelli milanesi, asserendo che erano “degnissimi di militare nell'Ordine, senza rinunciare ai loro convincimenti che, indubbiamente, [erano] espressione di una coscienza, come quella d'altri, inspirata da profondo amore per la Patria”139.
Nella primavera del 1919 le ‘rivendicazioni dalmate’ proseguirono con la partecipazione ad alti livelli del Grande Oriente d’Italia al congresso Pro Fiume e Dalmazia svoltosi a Milano il 12 marzo e presieduto da Riccardo Luzzato140 e quattro giorni dopo a Roma al comizio Pro Spalato e Dalmazia141. Nel mese successivo in seguito all’appello di Wilson pubblicato dalla stampa francese e rivolto direttamente alla nazione italiana, la giunta ribadiva in un manifesto che “Fiume e quei territori sulla costa orientale dell’Adriatico” spettano all’Italia per “antiche imperscrittibili ragioni di diritto nazionale riconsacrato dal recente sacrificio di innumerevoli suoi figli e dalla inflessibile volontà di quelle nazioni”142.
In seguito all’appello wilsoniano e il conseguente ritiro della delegazione italiana dalla conferenza di pace le trattative subirono una grave battuta d’arresto. Nathan a quel punto gioc la carta delle relazioni massoniche inviando nel maggio 1919 il Gran Maestro Aggiunto onorario Gustavo Canti, figura centrale dell’interventismo massonico dall’agosto 1914 all’entrata in guerra, e Meoni a Parigi. La scelta di inviare due esponenti del Grande Oriente d’Italia che avevano assunto posizioni più moderate su questi temi pu essere interpretato da una parte come un tentativo di contrastare la dissidenza interna che poteva rendere ‘nazionale’ una crisi anche fino a quel momento era localizzata solo a Milano; dall’altra per una presa di coscienza che con l’insistere sulla Dalmazia si rischiava di mettere in discussione anche altri territori che cominciavano a essere reclamati dalla Jugoslavia. Il fatto che nel verbale della giunta non ci fosse un preciso accenno alla Dalmazia mentre espressamente si citava Fiume, e le “dovute assegnazioni nell’Asia minore e in Africa” sono un indizio che potrebbe avvallare questa ipotesi.
Dalla missione in Francia i due dignitari giustinianei ottennero solo delle generiche attestazioni di solidarietà liberomuratoria da parte del Grand Orient e della Grande Loge de France del tenore “augurando ardentemente e sinceramente che l’Italia raggiunga le sue legittime aspirazioni”, poca cosa dal punto di vista politico ma che venne enfatizzato per riannodare i contatti con le due più importanti obbedienze transalpine dopo la crisi generatasi nel 1917 in seguito al congresso massonico di Parigi143.
Nell’ultima circolare della Gran Maestranza Nathan, pur esaltando la ritrovata sintonia con le ‘consorelle’ francesi, si ammise amaramente che
L’Italia non raccoglierà tutti i frutti che il mirabile le avrebbe meritati […] da Versailles anziché una soluzione che assicuri all’umanità una pace giusta e quindi duratura, venga l’imposizione di condizioni inique generatrici di nuove tragedie. Sulle cause e sulle responsabilità più vicine di questa situazione, non è il momento d’insistere. Accuse e recriminazioni ci indebolirebbero maggiormente, mentre è necessario raccogliere le forze per i gravi compiti del domani144.
Un chiaro appello all’unità per affrontare la pesante situazione socio-politica che il sentimento di ‘vittoria mutilata’ avrebbe generato. A causa delle cattive condizioni di salute e della delusione per il mancato riconoscimento delle richieste italiane da parte delle altre potenze vincitrici, Nathan non si ripresent all’Assemblea costituente del 22 giugno 1919.
Nel discorso inaugurale il neo-eletto Gran Maestro, Domizio Torrigiani, non fece nessun accenno alla Dalmazia ma solo a Trento, Trieste e a Fiume, teatro di una grave crisi che vide nei mesi seguenti l’Istituzione protagonista.
Conclusioni
Con il passaggio di consegne tra Nathan e Torrigiani si chiuse di fatto un capitolo della storia della massoneria italiana in cui la comunione più antica e importante aveva assunto posizioni che andavano oltre al già complicato dilemma cosmopolitismopatriottismo.
Si era combattuta una ‘guerra giusta’ o si era sostenuta una ‘guerra di potenza’? La rivendicazione della Dalmazia, soprattutto durante la granmaestranza di Nathan, seppur difesa come una affermazione di valori come civiltà, progresso e cultura, aveva introdotto nella tradizione liberomuratoria una mentalità imperialistica? Terminata la guerra era più importante battersi per un mondo costituito da nazioni affratellate o lottare per un’Italia grande e potente? Dopo questa traumatica esperienza quanto dell’idealismo mazziniano rimaneva?
A queste domande i massoni di Palazzo Giustiniani furono chiamati a confrontarsi e, come era successo in passato, fino al 1925 convissero più anime. Come ha sottolineato Fulvio Conti intorno al cleavage nazionalismo/ internazionalismo si aprì una faglia profonda, quella che avrebbe diviso la parte più democratica, sicuramente minoritaria, che fu capace di riscoprire, dopo la sbornia della retorica patriottica di guerra, la più autentica tradizione mazziniana e garibaldina, e quella di fatto approdata su posizioni di nazionalismo esasperato, ancora impegnata a combattere il nemico interno, che non a caso si sarebbe trovata di lì a poco a fare un pezzo di strada insieme al nascente movimento fascista145.